Verona, 7 aprile 2020

 

…Riflessioni per una gestione di questo nostro tempo

Care Socie e cari Soci,
in questi giorni di “quarantena” spesso mi sono trovato a pensare al fatto che marzo e aprile

sarebbero stati i mesi in cui potersi riunire per continuare assieme all’intero dell’assemblea e della proposta di aggiornamento continuo.
Il momento storico che stiamo vivendo, inedito per le generazioni del post guerra, sembra contraddistinguersi per la chiusura e lo stare da soli, quasi in disparte; inermi di fronte a ciò che accade.

È un periodo che interroga il nostro concetto di potenza e invincibilità, perché sembra esaltare la limitatezza del nostro fare, della nostra forza, delle nostre capacità e dell’autorità che pensiamo di avere nei confronti della vita.

A questo punto vorrei proporre una considerazione in linea con la psicomotricità relazionale. Fin dal momento del suo concepimento, l’individuo si trova nella condizione di dipendenza e ha bisogno di altro da sé per poter concretizzare il proprio essere. E più tardi, dalla nascita in poi, necessita, ad esempio, per un periodo rilevante di determinate premure, cure e stati mentali della madre e del padre per continuare nel proprio cammino. Basti pensare al concetto di rêverie, espresso da Wilfred Bion oppure quello di holding e handling di cui parla Donald Winnicott. Questo porta a comprendere che la donna, o l’uomo, non può bastare a se stesso per vivere; la dipendenza è presupposto fondante dell’esperienza umana.
Ma questo non basta.
Vivere diventa un’esperienza faticosa in quanto ogni elemento, cosa o persona, con cui l’uomo/la donna entra in contatto durante la propria vita, condiziona inevitabilmente la sua stessa esistenza; ne diventa esperienza capace di aprire a nuovi scenari, in grado di incidere e modificare positivamente o meno la vita. Quindi, l’impegno di ognuno nel progettarsi e nel proiettarsi non è mai da considerare come un percorso che trova fine in risultati certi, bensì è sempre soggetto sia al dipendere dagli altri, sia all’instabilità e alla complessità del divenire attraverso le proprie esperienze. Ciò rende evidente come l’esistenza umana sia caratterizzata per la dimensione della fragilità oltre che per quella della dipendenza.

A queste si somma anche la condizione di vulnerabilità: il solo disporre di una dimensione corporea conduce necessariamente la persona a essere soggetta a svariati bisogni materiali, così come alle patologie, a lesioni e ferite, alla disabilità, alla morte. In più, essendo essere relazionale, l’uomo è esposto emotivamente e psicologicamente alle perdite, alla sofferenza, alla carenza di cure, al rifiuto. Oltre a ciò, come elemento parte di contesti sociali, la vulnerabilità dell’individuo si può manifestare anche come possibilità di essere manipolati, oppressi o contagiati. Infine, l’ambiente stesso può costituirsi come minaccia, sia quello naturale sia quello trasformato dall’uomo.

Parlare di potenza dell’umano implica, per forza, essere di fronte anche a immagini legate alla dipendenza, alla fragilità, alla vulnerabilità, quindi a pensieri afferenti al concetto di mancanza.

Parlare invece di potenzialità significa essere al cospetto di visioni altre ed alte. A tal proposito, prendo come spunto ciò che tutti stiamo vivendo quotidianamente.
Lo stare soli, sole, può essere inteso a seconda che si prenda come riferimento il concetto di potenzialità o di potenza. In quest’ultimo caso, lo stare da soli, collima con il significato di essere “da soli”, isolati o abbandonati. Si descrive, così, una condizione che può essere intollerabile all’uomo. Che sia una limitazione scelta dal singolo verso gli altri o viceversa, induce la persona al rifiuto dell’altro, al chiedersi di bastare a se stessa, e inevitabilmente a percorrere quella strada che può trascinare verso la depressione e/o la morte.
“Essere soli” all’interno di un costrutto relativo alla potenzialità, invece, guida verso il concetto di solitudine che va intesa come elemento fortemente positivo e costruttivo, che sottende una profonda accettazione di se stessi. Un esempio di ciò può arrivare dall’immagine dell’uomo, che concentrato sui propri pensieri li raccoglie, progetta, medita e riflette. Oppure del bambino, che impegnato nello scoprire particolari qualità e caratteristiche di un oggetto, spende tempo in intimità per capirne l’utilizzo, come questo possa diventare parte della sua storia e del giocare da solo o con altri.
La differenza quindi fra i due concetti è che il primo è permeato da un sentito vincolato dall’esclusione, un sentirsi fuori da parte dell’individuo, perché messo o postosi fuori, perciò nell’impossibilità di vivere la relazione. Il secondo, invece, lascia entrare il riverbero della consapevolezza di poter riunirsi alla socialità e riconnettersi a legami.

Per Martin Buber, “la vita è un incontro” il cui senso non può essere trovato nell’esaltazione dell’individuo o della collettività, bensì nella relazione fondata sul “dialogo aperto”. Una conversazione tra un io e un tu. Un io promotore di comunicazione e ricettivo ai messaggi dell’altro e un tu, che è espressione di un altro io che si rende disponibile, a sua volta, all’ascolto e alla replica. È un riuscire ad esserci nella relazione, nel contatto anche a distanza capace di toccare fino all’intimo dell’umano.

È un contatto che non necessita di prossimità o di parole, bensì di vicinanza, consapevolezza e anche silenzio.
Portando il discorso alle esperienze psicomotorie, possiamo fare riferimento al lanciare la palla stando il più distante possibile dagli altri. In quel momento, ognuno di noi, ha sperimentato la solitudine ma non l’isolamento. Ha dato al pallone uno slancio, unico e peculiare, che è stato raccolto da qualcun altro e restituito secondo modalità altrettanto uniche e peculiari. Intime.

L’auspicio, per noi tutti, è quello di uscire dall’isolamento per abbracciare la solitudine. Di lasciare il costrutto della potenza per dare significato a quello della potenzialità e quindi delle possibilità.
Concludo citando la filosofa Edith Stein, che concentra la sua opera nell’assunto: ogni individuo è chiamato ad essere nella possibilità. Questo come conseguenza porta al considerare ogni persona, ognuno di noi, impegnata nel passaggio da essere possibile a essere attuale. Quindi da un essere condizionato dalla conformità di ciò che gli sta attorno, a un essere in grado di guardare alle proprie capacità resilienti e trasformative.
Un caro saluto a tutti.
A presto,

Mattia Scapini